Uno zaino, un orso e otto casse di vodka, di Lev Golinkin
Baldini&Castoldi, 2017, collana: Romanzi e racconti, trad.: S. Travagli, ISBN: 978-8868528027

 

Quando passammo davanti allo specchio, Oleg mi guardò.
«Tu sei uno žid
«žid» era una brutta parola dal significato ancora più brutto. La si sentiva in tutta la Russia. Non significava semplicemente «sporco ebreo», definiva una sinistra epidemia cancerosa che per molti russi stava devastando il Paese. Bej židov spasaj Rossiju («Annienta gli ebrei, salva la Russia») era uno slogan che si leggeva su molti muri di Char’kov.
Sapevo di essere ebreo, ma non sapevo cosa volesse dire.
«Non lo so», risposi dopo un momento.
Oleg stava riflettendo.
«Aspetta, ti do un occhiata»
[…]
«Sì, sei uno žid. Hai il culo di uno žid, la faccia di uno žid… Abbiamo imparato a riconoscerli a scuola.»

 

Due storie con lo stesso protagonista. Due storie che si intrecciano: quella di un bambino ebreo che fugge con la sua famiglia dall’Ucraina durante gli ultimi mesi dell’Unione Sovietica e quella del bambino cresciuto negli Stati Uniti che, dopo aver fatto di tutto per dimenticare il suo passato, si mette alla ricerca delle sue radici in giro per l’Europa.

Un momento storico poco conosciuto: negli ultimi attimi di vita dell’Unione Sovietica giunge voce agli ebrei sovietici che dall’inizio del 1990 le frontiere per loro verranno chiuse e il già difficile percorso per lasciare il paese diventerà impossibile.

Per questo i genitori del protagonista (Lev) incominciano una corsa contro il tempo per ottenere documenti, visti e più dollari possibile per passare la frontiera e arrivare a Vienna, dove li aspetta una qualche vana promessa di aiuto.

La decisione di partire viene presa in particolar modo per sfuggire al razzismo dilagante e alle vessazioni che, in quanto ebrei, sono costretti a subire: per esempio, nonostante la sorella di Lev fosse la migliore della scuola non le è stato permesso iscriversi a medicina, per non parlare dei soprusi fisici e mentali che il piccolo di casa deve continuamente subire a scuola senza che le insegnanti gli prestino la minima attenzione.
Come ci racconta il protagonista, erano ebrei, sì, ma non sapevano perché, ed erano stati spogliati dal regime delle loro tradizioni e della loro cultura e, nonostante questo, continuavano a essere considerati una “sporca razza”.

In questo clima inizia quindi il viaggio di questa famiglia da Char’kov, Ucraina, con due valige a testa, 600 dollari e otto casse di vodka, utili da regalare per tenere a bada occhi indiscreti; arrivati alla frontiera dopo una notte straziante passata in dogana con le guardie che cercano in ogni modo di non farli passare, finalmente possono partire in autobus alla volta di Vienna.

Arrivati a Vienna, vengono accolti alla stazione dai volontari di un’associazione per i rifugiati ed inizia un periodo in cui vengono spostati da un centro all’altro senza sapere cosa ne sarà di loro (un forte parallelo con il presente; sconsigliata la lettura a chi è convinto che ad ogni immigrato vengano dati 30 € al giorno).

Per il piccolo Lev si apre quindi un mondo di centri di accoglienza, di incertezza e paura, ma anche un mondo di speranza costellato di persone sconosciute che cercano in ogni modo di aiutare la famiglia del protagonista nella sua permanenza in Austria e cercano di far loro raggiungere gli Stati Uniti. Un mondo pervaso dall’odio, ma che lascia intravedere barlumi di speranza.

Anni dopo, Lev, ormai laureato e residente in New Jersey, si mette alla ricerca del passato che con ogni forza ha tentato di dimenticare, per cercare di dare un senso al suo futuro e alla sua stessa esistenza.

Un libro tagliente e triste, ma allo stesso tempo molto ironico; uno spaccato su una parte di storia europea poco conosciuta; un viaggio dal punto di vista di un bambino verso un futuro migliore e un viaggio alla riscoperta del proprio passato per trovare la forza di vivere nel presente.

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