Ne L’Università di Tuttomio, Fabrizio Silei costruisce una storia paradossale per riflettere su società e scuola.
L’Università di Tuttomio, Fabrizio Silei
Il Castoro, 2017, Illustrazioni di Adriano Gon, ISBN: 9788869661761
Età: dai 9 anni in su
«Chi se ne frega».
Eccolo qua il motto lezioso degli Smirth, la coppia di coniugi da cui Fabrizio Silei ci mette in guardia nel suo ultimo romanzo per ragazzi, L’Università di Tuttomio.
Avidi, egoriferiti, anaffettivi, meschini, bugiardi e maledettamente competitivi, devono fortunatamente scontare un amaro contrappasso: il figlio, che avevano generato solo per assicurarsi un erede a cui lasciare l’enorme patrimonio, è il loro esatto opposto.
Il bambino si chiama Primo, nome che avevano scelto affinché nella vita primeggiasse. Nessuna adorazione per lui, però. Gli si rivolgono alternando indifferenza, disprezzo, scuotendo le teste e con appellativi tipo “Coso” o “moccioso”.
A Primo, ovviamente, di primeggiare non interessa nemmeno per distrazione.
È generoso, empatico, candidamente sincero, inconsapevolmente buono. E non solo per aver trascorso i primi otto anni della propria vita in campagna con l’affettuosissima balia Enrichetta Stevenson, a cui Mr Gregor e Katiuscia lo avevamo affidato per liberarsene che era ancora in fasce, ma semplicemente per indole. Una caratteristica così evidente e fastidiosa che i due – dopo aver tollerato, si fa per dire, diversi disastri – non possono fare altro che iscriverlo alla scuola primaria e media pluriclasse di Tuttomio, un collegio esclusivo nella campagna fuori Londra. Lì imparerà le regole della vita, al pari di generazioni di figli di banchieri, politici, diplomatici, strozzini, spietati uomini d’affari, arrampicatori sociali e finanzieri, e il mito dell’egoismo assurto a necessaria virtù per la sopravvivenza.
Diretta dal signor Mc Pear, lo stesso che guidava l’istituto ai tempi in cui lo frequentava il signor Smirth, la scuola vanta un bidello come Mr Taccagn e docenti, nomen omen!, quali la professoressa Belfagor, Mr Forcent, Guendalina Byron e la cuoca Beppa Janez che crea ricette infallibili a base di gulasch di carni di provenienza incerta per rinfocolare rancori e vendette.
Non prevede né vacanze né momenti di ritorno a casa durante l’anno scolastico e ha come proprio modus operandi il rigido rispetto delle regole, riti malefici come quello del tiro al biscotto per meritarsi la colazione e sostiene e predilige rimproveri, prevaricazioni e umiliazioni varie.
Anche la divisa, neanche a dirlo, è di rito.
Gli studenti, abituati a guardarsi in cagnesco e a competere, sgomitano l’uno con l’altro per farsi notare. Dopo l’iniziale diffidenza, salutano con entusiasmo la rivoluzione, quasi eversiva, innescata da Primo, lo scolaro educatamente irriverente e senza paura.
Una liberazione di cui non sapevano di avere bisogno, ma che in fondo stava lì latente dentro ognuno di loro.
Primo rappresenta la speranza, oseremmo dire montessoriana, che Silei ci regala già dai primi capitoli e che, fortunatamente, non ci abbandonerà per tutte le pagine del romanzo. L’autore de L’autobus di Rosa e de La doppia vita del signor Rosenberg sembra far suo il piano cosmico di Maria Montessori: secondo la studiosa, il bambino, se posto in condizioni di indipendenza, autonomia operativa e considerato come vero e proprio soggetto di diritto, non solo è in grado di costruire la propria identità, ma di rigenerare l’umanità intera. Ed è proprio questo che accade a Primo e all’Università di Tuttomio.
E, ancora, è proprio in questo che Silei differisce da Roald Dahl e di cui, da molti, è considerato l’erede italiano.
Se Dahl criticava e puniva i cattivi maestri (basti pensare ai genitori di Matilde, a cui la bambina preferirà la signorina Dolcemiele), lo scrittore fiorentino non tratteggia dei personaggi negativi in assoluto. Concede loro l’alibi della storia da cui provengono e, seppur en passant, si lascia sfuggire la descrizione di qualche loro tentennamento: Mr Gregor che da bambino sognava di fare il pittore e Katiuscia, che, ancora teenager, un giorno giurò che non avrebbe pianto mai più.
Certo, gli Smirth esistono davvero, ovunque. Sono i nostri vicini, i nostri colleghi e, ancor peggio, i presidi divenuti manager delle scuole dei nostri figli. Nell’intento narrativo di Silei, gli Smirth sono ciò che stiamo diventando e l’esagerazione e l’eccesso con cui l’autore li descrive sono gli espedienti letterari per denunciare questa deriva.
Oltre che per lanciare una riflessione sul mondo della scuola, la scuola buona – quella che insegna la convivenza e la solidarietà – contro la buona scuola, che al primo posto mette eccellenze e competizione.
Una riflessione arricchita con omaggi e citazioni a Darwin e alla sua teoria dell’evoluzione, ma anche a Charles Dickens e al suo Canto di Natale.
Le illustrazioni che contrappuntano il romanzo sono di Adriano Gon, con cui l’autore aveva già collaborato per Mio nonno è una bestia, sempre per Il Castoro. Col suo segno un po’ inglese, Adriano Gon sta a Silei come Quentin Blake sta a Roald Dahl. Un paragone lanciato, in fondo, già alla prima illustrazione del libro: i coniugi Smirth seduti a pranzo al caffè intitolato proprio al grande scrittore britannico scomparso nel 1990.
Quando Silei vinse il premio Andersen come miglior scrittore nel 2014, la motivazione recitava:
«Per essere la voce più alta e interessante della narrativa italiana per l’infanzia di questi ultimi anni. Per una produzione ampia e capace di muoversi con disinvoltura e ricchezza fra registri narrativi diversi: dall’umorismo alla misura breve del racconto per i più piccoli, dall’albo illustrato al romanzo per adolescenti, dal progetto creativo ad un forte impegno civile. Per una costante e limpida qualità della scrittura».
Una motivazione più che sufficiente per comprendere cosa abbia spinto la giuria del Premio Strega Ragazze e Ragazzi a inserire questo bellissimo romanzo di formazione (anche, e soprattutto, per i genitori dei piccoli lettori) nella cinquina dei finalisti in lizza per la categoria 6+.