Tutto quello che non ricordo, Jonas Hassen Khemiri
Iperborea, gennaio 2017, traduzione di Alessandro Bassini, pp. 352, ISBN 9788870914733
Ho incontrato questo libro per caso, sullo scaffale “novità” di una libreria, come non mi capitava da diverso tempo. Ammetto, purtroppo, di essere colpevole: difficilmente, da anni a questa parte, trovo il tempo o la voglia di farmi un bel giro in una libreria fisica, passeggiare fra gli scaffali, toccare e sfogliare e sentire i libri che compro. Di solito cerco fra venditori on-line, controllo recensioni (come spero stiate facendo voi in questo momento, mentre mi leggete) e mi faccio recapitare a casa o sul mio lettore e-book la mia scelta, comoda comoda. In questo caso no, in questo caso era un sabato pomeriggio, ero in giro per la città, e avevo il tempo di godermi questa esperienza, una piccola madeleine dei bei tempi andati. Ho preso in mano Tutto quello che non ricordo, l’ho sfogliato, ho saggiato un po’ scettica il formato particolare che Iperborea ha scelto (uno strano 11×20 cm, sorprendentemente piacevole da tenere in mano).
Vorrei poter dire di averlo scelto per i temi che tratta, attualissimi, come l’immigrazione, l’integrazione, il senso di identità delle seconde generazioni; suppongo che questo farebbe di me un lettore diverso da quello che sono, forse più consapevole, più “politico”. La verità è che mi sono resa conto, già leggendo l’incipit, che il libro che avevo per le mani parla in realtà di tutt’altro, ovvero proprio di verità. Verità, punti di vista, memoria, finzione nella finzione. Tutto quello che non ricordo è un libro profondamente metaletterario, nel senso migliore del termine, laddove la riflessione sulla narrazione diventa riflessione sulla vita stessa, sulla coscienza, sul rapporto del soggetto con il mondo.
Nella storia, che si compone per frammenti brevissimi, paragrafi che cambiano voce narrante, uno scrittore sta cercando di ricostruire le ultime ventiquattro ore di vita di Samuel, un ragazzo morto tragicamente, forse in un incidente, forse per scelta. La narrazione si muove su due binari: da una parte abbiamo la voce di Vandad, il migliore amico di Samuel, e dall’altra svariati personaggi si passano il testimone per raccontare il loro frammento di storia. Le loro voci sono restituite splendidamente, con la fluida realtà del parlato:
Mi chiamo Gurpal, ma tutti mi chiamano Guppe. Ti serve anche il cognome? Scrivi che ho trentotto anni, sono giovane e single, mi piace fare passeggiate, guardare film di fantascienza e ascoltare R. Kelly, ma non le canzoni più volgari.
Così, tendiamo a scordarci che chi sta parlando non è questo Guppe, la Pantera, o Laide; è il nostro misterioso scrittore, che nasconde la sua voce, offusca il suo ruolo di narratore – esattamente come Khemiri – dietro la finzione di riportarci senza interventi ciò che gli hanno raccontato. Ci riporta pause, gesti, silenzi, richieste di cancellare o alterare quanto appena detto. Un’illusione di obiettività messa ancora più in risalto da ciò che i personaggi stessi raccontano, spesso accusandosi a vicenda di mentire, di portare acqua al proprio mulino.
La gente dice che Vandad farebbe di tutto per i soldi. Era emotivamente instabile. Avrebbe venduto sua madre per mille corone.
Dice Laide, l’ex fidanzata di Samuel.
Mentono. Mentono tutti.
Dice Vandad. Parlano ancora di Samuel, il grande assente? O forse parlano di altro, con la scusa di raccontare dell’amico morto? La finzione si estende alla vita dei personaggi, è la memoria che li inganna, è il tentativo di ripulirsi la coscienza, è un modo per spiegarsi il caos degli eventi e delle relazioni: una riflessione potente sul ruolo della narrazione e sulla ricerca di significato che deborda ben oltre le pagine di un romanzo.