Quando sabato sera vedo sbucare Emidio Clementi a La confraternita dell’uva mi preoccupo un po’. Non riesco a capire che persona sia e per i primi dieci minuti mi sforzo disperatamente di collocarlo. È spigoloso, ma non rigido. Ha lo sguardo asciutto, ma si lascia andare a gesti eleganti. La voce è profonda, certo è un musicista mi dico, la sua intonazione, tuttavia, è così mobile ed essenziale da ricordarmi certi attori degli anni Settanta. Non è piena come la immaginavo, ma precisa, arguta, sottile. Appartiene a qualche altro tempo. Il suo romanzo L’amante imperfetto mi aveva vagamente rimandato a una dimensione romantica, di quelle in cui i personaggi si sfiorano imbarazzati e, proprio a causa di quella reticenza, sfumano e diventano liquidi, come figure in bianco e nero. Forse è stata una scena in particolare, i due protagonisti che attraversano la strada e qualcuno che grida “Largo all’amore!”, mentre la voce narrante si lascia andare a un tono di dubbioso disincanto.
Ne L’amante imperfetto, però, si passa da queste delicate note a descrizioni di club di scambisti e sesso frettoloso consumato per lenire uno strano dolore. Per questo il mio giudizio sull’autore oscillava, senza riuscire a centrare le polarità su cui si reggeva la trama del romanzo. È Emidio stesso a sciogliere il mio enigma, squadrandomi con i suoi occhi di un azzurro chiarissimo. La presentazione scorre sui toni dell’ironia, sfiora domande un po’ scontate per creare la confidenza, fino ad addentrarsi in tematiche più profonde, più intime. Son sempre i tocchi ironici a sferzare il pubblico e a riportarlo a una dimensione più terrena. Si comincia con una descrizione dell’approccio alla scrittura.
A me non succede mai di cominciare a scrivere un libro e di sapere come va a finire. A vent’anni quando ho cominciato pensavo che gli scrittori avessero già un’idea delineata sin dall’inizio, poi ho scoperto che è comune il non sapere la direzione della storia. Si ha un’idea vaga, un paio di immagini in mente e poi ci si affida a quello. Si scava, si vede se si trova un filone. Spesso non si trova nulla e rimane lì, un racconto abbozzato. Altre volte si trova una strada da percorrere.
Emidio dichiara la sua insofferenza per gli schemi e le tanto detestate scalette imposte dal sistema scolastico. Il pubblico lo fissa con sguardo inebriato e forse, immagino io, con un certo sollievo. Per scrivere non è davvero necessario sapere quel che si sta facendo. Si procede per sensazioni, per giustapposizioni. Poi il flusso sgorga, l’immediatezza sfrontata di certi incontri si trasforma in qualcos’altro, forse in un’alchimia letteraria, forse in una bozza che non vedrà mai la luce.
Continuano le polarità che contraddistinguono Emidio e anche la nostra serata. Questa volta sono il femminile e il maschile a fronteggiarsi in un immaginario duello e a mescolarsi quando meno ce ne rendiamo conto. Gli chiedo della protagonista del romanzo, questa donna insicura che non ama indossare cappelli, e di come la loro storia si avvicendi in uno scambio continuo di poteri e richiami.
Della femminilità mi colpisce la diversità. Credo che sia proprio quella distanza irraggiungibile il segreto dei rapporti sentimentali e dell’amore. Ci sono tanti tipi di amore, c’è quello protettivo, quello confortevole, quello domestico, ma la sua qualità imprescindibile è l’inquietudine che lo rende vivo. Un altro elemento centrale del romanzo è il desiderio, il cui difetto più spiccato credo sia la crudeltà.
Oso andare dietro le quinte e chiedere di svelarci i meccanismi della messa in scena. Come l’autore impasti la trama e da lì quello che viene dopo, il confronto con l’editor, le frasi limate, gli aggettivi smussati. La risposta giunge di buon grado.
C’è un momento, quello più emozionante per me, in cui il word non è ancora un libro, ma un impaginato con i caratteri della casa editrice. Il lavoro di editing è necessario, uno scrittore non può farlo, perché c’è bisogno di una distanza prospettica. Quando mando il testo finito al mio editor gli chiedo di essere spietato e così lui fa. Per due settimane non gli parlo. Alle volte litighiamo, c’è una battaglia. Se hai fiducia, però, ti rendi conto: quello che è stato tolto andava tolto.
Arriva il momento di entrare nel cuore della rassegna, di parlare di identità, di finzione, di limiti. Gli chiedo, quindi, qual è il suo confine. Se c’è un filo oltre cui non riesce ad andare, dove si ferma e guarda, senza attingere più.
Non credo che nel bagaglio di uno scrittore possa esserci la riservatezza, poi certo può far male a chi gli sta intorno. C’è una strofa di Flavio Giurato che inizia così Ragazzina non andare con i cantautori che poi finisci nelle canzoni.
La sua franchezza riscalda il pubblico e la serata prosegue e scivola via tra citazioni cinematografiche, bicchieri di vino, il brusio dei soliti distratti e i sussurri per dirsi: “sai che lo chiamano Mimì?”.
Non vi racconto altro perché non sarebbe giusto, chi c’era sa quali altre parole sono state dette, i mezzi sorrisi che si sono aperti in una lieve malinconia.
La rassegna continua, a sabato prossimo.