Ho appuntamento con Gianluca Morozzi in un bar del centro di Bologna, in via Belvedere. Mentre aspetto, affondo in una poltrona e, scrollando sullo schermo del telefono per ripassare l’elenco interminabile delle sue pubblicazioni, penso che Morozzi, forse, ha fatto un patto con il diavolo. Gli Annientatori, uscito il mese scorso, è il suo ultimo romanzo e siamo ancora ad aprile. Nel 2018 me ne aspetto almeno altri due.
Come si intuisce dalla regolarità con cui pubblica, è una persona abbastanza puntuale, e infatti non mi fa aspettare molto. Lui ordina un bianco, io una birra. Metto sul tavolo il quaderno, dove ho appuntato qualche domanda, e avvio il registratore.
Partirei dal posto in cui siamo: il Fun Cool Oh! Chi ha letto Gli Annientatori sa che Giulio Maspero tiene corsi di scrittura creativa nei sotterranei di un’osteria del centro di Bologna, e visto che anche tu tieni dei corsi di scrittura creativa nei sotterranei di questo bar, inizierei con la Bologna di Gianluca Morozzi.
In questo luogo tengo da ormai tre anni dei corsi di scrittura creativa; nel sotterraneo, misterioso e inaccessibile. Quindi questa è una delle mie tappe bolognesi assolutamente fisse. Dopo di che, Bologna è molto grande e piena di sorprese. Io che ci abito da 47 anni e l’ho girata un po’ tutta, ancora amo scoprire posti nuovi, che non ho mai visto e che trovo passandoci per caso. Ed è piena di posti utili per le storie. Talvolta metto in scena il pieno centro, talvolta posti più isolati. In Blackout tutto avveniva in una zona di Borgo Panigale estrema, quasi in tangenziale, praticamente: mi serviva quella zona lì. Lo specchio nero invece era ambientato in una zona che non conoscevo nemmeno io: via della Luna, un piccolo spicchio di Corticella, in periferia totale. E in quest’ultimo romanzo ho scelto una via inventata, in realtà, che però è ispirata a quelle viuzze strette e strane tra il Pontelungo e il fiume Reno.
Santa Viola.
Santa Viola: dalle parti in cui Andrea Pazienza, più o meno, ha vissuto.
Restando su Gli Annientatori, te lo avranno già detto diverse volte, c’è una corrispondenza tra te e il protagonista.
Giulio è chiaramente un personaggio diverso da me, ma siccome fa un mestiere uguale al mio è ovvio che gli metta addosso delle cose, delle battute, delle gag mie: se dovessi mettere in scena un mestiere che non conosco, mi dovrei inventare o dovrei scoprire delle cose, cercare delle cose… La pigrizia mi induce a fare cose che conosco. Ma ci sono anche delle differenze: lo faccio fumare, mentre io non fumo, ed è molto più muscoloso e palestrato di me, che sono un pochino più flaccido…
Ecco, forse nei tuoi personaggi bisogna guardare più alle differenze: di Giulio Maspero hai già detto; poi c’è Lajos (protagonista de L’Era del porco e di Bob Dylan spiegato ai fan di Madonna e dei Queen) che ha una cover band di Bob Dylan, come Morozzi nella realtà, però è anche figlio di Bob Dylan. Sono dettagli che mi fanno pensare: quanto nei tuoi personaggi c’è il Morozzi che vorrebbe essere, quel Morozzi che nella realtà non può essere, non ha il tempo di essere o non è stato?
Moltissimo, già dal mio primo romanzo, Despero: quando l’ho scritto volevo essere Kabra. Nel senso che l’ho scritto in un momento che non ero nulla: non ero uno scrittore, stavo provando a fare delle cose. Siccome la scrittura non mi riusciva e non riuscivo a pubblicare niente, mi chiedevo se non avessi fatto meglio a seguire l’altra mia passione, e imparare a suonare la chitarra un po’ meglio di come suono (ci vuole pochissimo). Allora ho inventato questo personaggio: era un mio alter ego che però ce l’aveva fatta. A modo suo, in un contesto molto di cantina, indie prima che si chiamasse indie, ce l’aveva fatta.
A questo punto raccontiamo anche il Morozzi prima di essere Morozzi. Come sei diventato uno scrittore?
Attraverso una gavetta piuttosto lunga e faticosa. Non ho fatto corsi di scrittura, ho fatto cose completamente punk, e le ho fatte anche malissimo. Era un mondo pre-internet, era un mondo pre-tutto, le cose non si sapevano bene, si tirava a indovinare e se non conoscevi nessuno – e io non conoscevo nessuno – scrivevi i tuoi raccontini bruttissimi, derivativi da Bukowski, da John Fante, da Stephen King, da Tondelli, da tutto quello che leggevi in quel momento, e li mandavi ai concorsi letterari e alle riviste. Rispetto a oggi c’erano tantissime riviste cartacee per esordienti. All’epoca mandavo i racconti a tutti. Scrivevo a tutte le riviste e partecipavo a tutti concorsi. Senza molto successo, però: non ho vinto mai un concorso in vita mia, mai.
Però poi sei arrivato a pubblicare.
Le riviste hanno pubblicato quattro racconti nel ’91-’92 su Star Magazine, che non era neppure una rivista letteraria: era una rivista di fumetti della Star Comics. Poi è apparso un racconto in dieci anni su Storie e alla fine, quando sono riuscito un pochino ad affinare lo stile, il primissimo racconto in cui compariva l’orrido, con Lajos che non si chiamava ancora Lajos, fu pubblicato su Inchiostro, a fine ’99 o quasi nel 2000, mi sembra. E da lì in poi ho messo il tiro al posto giusto e Despero è uscito un anno dopo.
Sei impegnato tra corsi, presentazioni in giro per l’Italia, suoni, fai radio, fai di tutto: dove trovi il tempo per scrivere?
La cosa bella è che scrivere non richiede così tanto tempo, per me. I romanzi nascono abbastanza in fretta se ti ci metti nel pomeriggio… in vari pomeriggi. Il mio pomeriggio è molto lungo.
Quindi questo pomeriggio, prima di incontrarci, hai scritto un altro romanzo?
Oggi ho lavorato a un’antologia per un corso. Ho corretto racconti di altri, fondamentalmente. Ogni anno, però, tre romanzi mi escono.
Qual è il tuo romanzo di Morozzi preferito?
In genere rispondo dividendo in due: di quelli drammatici, Cicatrici; di quelli divertenti, Colui che gli dei vogliono distruggere. Sono i miei preferiti perché in entrambi ho potuto veramente sbizzarrirmi molto. Li ho scritti in un periodo in cui non volevo avere limiti.
Nei tuoi libri ci sono riferimenti culturali ricorrenti, che ti identificano molto: musica e fumetti, soprattutto. Per esempio, Giulio Maspero indossa ogni giorno una maglietta dei Rolling Stones diversa. Oltre alla pigrizia che ti porta a scrivere cose che conosci, questi riferimenti hanno una funzione nel rapporto con i lettori, li condividi con i tuoi lettori?
Il mio mondo entra nei libri con moderazione: dipende quanto vuoi mettercelo dentro e quanto non vuoi che seppellisca la storia. In alcuni romanzi, quelli comici, ci metto tutto il mio mondo. Negli altri, come in quest’ultimo, cerco di misurarmi, metto piccoli assaggi. Però chiaramente ogni autore porta il suo mondo nelle proprie opere. Pensa a Woody Allen: il suo mondo è New York, intellettuali e jazz. Il mio fumetti, calcio e rock’n’roll.
E riguardo al rapporto con i lettori?
Ottimo.
Vuoi bene a tutti i tuoi lettori?
Sono molto cari. Più che altro, mi sento capito. Mi sento estremamente capito dai lettori, e non è poco.
Ti è mai capitato di usare la letteratura per vendicarti? Ci sono personaggi che sono persone che non ti piacciono nella vita reale e che per vendetta hai fatto diventare personaggi spiacevoli nei tuoi libri?
Guarda, è una bella domanda. Se l’ho fatto non me lo ricordo, e forse è anche un buon segno: vuol dire che non li odiavo così tanto. Tra l’altro sono tutti convinti, dai miei libri, che io odi mio padre. Assolutamente non è vero. Io non ce l’ho con mio padre, anzi! Poveretto, me lo dice ogni tanto anche lui.
Io, devo dire, non pensavo a tuo padre. Però da Gli Annientatori mi è venuto un sospetto su Mauro Britos.
Ah, no, lui l’ho inventato.
Completamente inventato.
Sì.
E ora chiudiamo l’intervista con un po’ di domande sceme.
Benissimo.
Chi ti conosce sa che Bob Dylan e Stephen King sono i tuoi miti. Sai sicuramente che Stephen King ha scritto un libro per bambini: tu ci hai mai pensato?
Per bambini non sono assolutamente capace. È una cosa proprio diversa. Un libro per ragazzi l’ho più o meno fatto, si chiama Marlene in the sky. Doveva essere un romanzo per ragazzi, poi l’unica cosa che ho fatto è stata: no sesso, no parolacce. L’unica parolaccia è l’ultima. Finisce con: “culo”. Un libro per bambini però no, non lo so fare. Quando ne leggo uno capisco benissimo come si fanno, e non è il mio genere.
E su Bob Dylan: se ti assegnassero il Nobel alla letteratura ci andresti a ritirarlo o faresti come lui?
Ci andrei, sono una persona gentile, non sono un pazzo come lui. È un pazzo completo. Ci andrei e ringrazierei tanto, farei un discorso simpatico, sarei un pochino più accomodante di lui, sinceramente. Però non sono neanche Dylan: non ho scritto Like a rolling stone.
Che titolo daresti a questa intervista?
“Two guys in a bar”, come quelle barzellette americane.
Qual è il tuo pezzo preferito dei Diaframma? (Ci incontriamo spesso ai concerti dei Diaframma, ndr).
I Giovani mi piace moltissimo; e Libra, perché ci sono molto affezionato per vari motivi.
Libra nella versione live cantata da Fiumani?
Ho conosciuto prima quella, nelle pagine di Brizzi (è citata in Jack Frusciante è uscito dal gruppo, ndr), e poi per ascoltarla ho comprato il disco Tre volte lacrime, quindi sono affezionato alla versione di Miro. Però anche quella di Federico, citata da Brizzi, mi piace moltissimo.