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Tutta colpa delle leggi dell’amore

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Mentre torna in libreria con Il ministero della suprema felicità, rileggiamo Il dio delle piccole cose, romanzo d’esordio di Arundhati Roy e Booker Prize 1997

Il dio delle piccole cose, Arundhati Roy
Guanda, collana: Le bussole, 1997, trad. Chiara Gabutti, ISBN: 978-8823510142

E se invece qualcuno di noi sognasse di creare una società a cui le persone hanno voglia di appartenere? O una alla quale le persone non sono costrette ad appartenere? Se qualcuno di noi non avesse sogni colonialisti e imperialisti? Se invece sognasse la giustizia? Sarebbe forse un reato?

Scriveva così Arundhati Roy in un articolo in cui raccontava le contraddizioni dell’India, la più popolosa democrazia del mondo, uscito lo scorso anno sul locale The Caravan e ripreso in Italia da Internazionale. Scrittrice e attivista nel suo paese (nel 2015 è stata accusata di oltraggio alla magistratura per un servizio giornalistico in cui denunciava l’arresto di un docente sospettato di avere legami con i ribelli maoisti), torna al romanzo con Il ministero della suprema felicità (Guanda). Esattamente vent’anni fa, era il 1997, vinse il Booker Prize con Il dio delle piccole cose, senza dubbio uno dei romanzi più belli e intensi del Novecento e su cui vale decisamente la pena di tornare.

Ne Il dio delle piccole cose di giustizia ce n’è ben poca.
Saga familiare capace di rendere unici sentimenti universali, è inseribile anche nel genere storico poiché racconta, dagli anni Sessanta in poi, le trasformazioni dell’India, un paese complesso in cui induismo, cristianesimo, influenza britannica e marxismo si confondono come gli odori che si respirano nelle strade e nei Destini – con la “D” maiuscola – dei protagonisti e delle loro gabbie.

L’Aria era piena di Pensieri e Cose da Dire. Ma in momenti simili vengono sempre dette solo le Piccole Cose. Le Grandi Cose si acquattano dentro, non dette.

È questa frase – a volte palesata, molte altre sottesa – il cuore del romanzo. La sua anima.

Con uno stile popolare ma raffinato, crudo ma poetico, l’autrice ha la capacità di descrivere il tutto torna della vita, pur nella superiore metabolizzazione dell’inaccettabile, ricorrendo all’uso di preziosissime metafore e calzanti lettere maiuscole. Una scelta stilistica con la quale cristallizza i paraocchi della storia e le Leggi dell’Amore che stabiliscono chi deve essere amato. E come. E quanto.

Il best seller narra le vicende di due gemelli dizigoti, attingendo alla tradizione indiana oltre che all’immaginario dell’infanzia capace di costruire storie verosimili, resuscitare i morti, sentirne voci e piroette. Ma imprigionata nel silenzio se tradita, violata e offesa.
Il punto di vista – seppur il narratore sia terzo e onnisciente – è quello dei due bambini di sette anni, Estha e Rahel, fratello e sorella, figli illegittimi, che vengono ingiustamente separati e che, in un vortice di flashback, corsi e ricorsi, si ritroveranno a trentun anni quasi fossero due sconosciuti a lenirsi le antiche incurabili ferite. Come congelati al momento della separazione, frutto di un inganno di cui essi stessi si fecero complici.

Non vecchi, non giovani. Ma vitalmente morituri.

E poi c’è Ammu, la madre infelice, severa e fragilissima, ma al contempo forte, e che i due gemelli provarono a salvare rovinando se stessi. La piccola Ammu che aveva avuto un padre che si mostrava perfetto e generoso all’esterno, ma che dentro le mura di casa si accaniva con violenza su moglie e figli. Proprio come il marito che fu costretta a lasciare. Forse anche per questo, finché le fu consentito, ogni sera, prima di metterli a letto, Ammu aveva letto Kipling ai gemelli. Aveva svolto il doppio ruolo di madre e Baba e, soprattutto, li aveva amati con il doppio della forza che aveva dentro. Probabile alter ego sulle pagine di Arundhati Roy, Ammu già da bambina aveva assunto quella vena ribelle e testarda che si forma quando Uno Piccolo è tiranneggiato da Uno Grosso.

Morì da sola. Con l’unica compagnia di un rumoroso ventilatore da soffitto e nessun Estha che si coricasse contro la sua schiena e le parlasse. Aveva trentun anni. Non vecchia, non giovane, ma vitalmente moritura.

Infine lo squallore, la Commedia e l’inerzia degli altri piccolissimi personaggi descritti nel romanzo: l’anziana e invidiosa Baby Kochamma, in primis. E quell’episodio, Atto Severamente Vietato, che dà il via alle terribili danze di questa storia. E che viene acuito dal trattamento riservato dalla polizia a Velutha, il Paravan follemente amato da Ammu e dai suoi figli ma appartenente ad un’intoccabile casta che mai riuscì a fare la rivoluzione e, dunque, ribattezzato Dio della Perdita e delle Piccole Cose.

La premonizione della tragedia arriva con addosso i vestiti della festa, fuori dalla sala di un cinema, nonostante Tutti insieme appassionatamente cantata a squarciagola. L’innocenza si frantuma al sapore di Limonearancia dietro al bancone di un bar mettendo definitivamente la parola fine alle spensierate bolle di saliva dei due fratelli che si fingevano impiegati (ma che avevano anataS ien orol ihcco) e spalancando le porte alla precoce morte della piccola Sophie Mol, la cugina arrivata dall’Inghilterra.

È a quel pomeriggio al cinema, e alla confessione forzata rilasciata un paio di giorni dopo alla polizia, che si dovrà l’imperituro silenzio di Estha. E la triste solitudine di Rahel, che di suo fratello, quasi fossero una rara specie di gemelli siamesi, sentiva tutto, anche i sogni non raccontati e le paure mai confessate.

Una simbiosi che attraversa tutte le quattrocento pagine e che, riflettendosi anche su Ammu e il suo paria, fa di questo libro una delle più grandi storie d’amore mai raccontate.

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